di Mario Paolo D’Arezzo
Si segnala questo caso abbastanza emblematico di un cittadino italiano residente all’estero ed iscritto all’AIRE dal 1978, il quale subiva un accertamento IRPEF dall’Agenzia delle entrate per omessa dichiarazione dei redditi da lavoro autonomo anno 1999.
Le ragioni dell’accertamento si basavano sul fatto che l’intimato avesse ancora in Italia rilevanti legami affettivi e legali personali, i quali costituivano un’idonea ragione per l’imputazione della residenza di fatto in Italia.
Sebbene, l’Agenzia delle Entrate avesse perso i due gradi di giudizio, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione ritenendo che i giudici di merito avessero violato l’art.2 comma 2 bis del DPR n. 917 del 1986 in relazione articolo 360 c.p.c., n. 3,
La Suprema Corte riteneva la censura non fondata ritenendo che l’Agenzia avesse malamente interpretato l’art. 2 del TUIR Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 2, in quanto la norma in oggetto stabilisce che ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti nello Stato le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta si trovino in una delle seguenti condizioni (tra loro alternative):
a) sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
b) hanno la residenza o
c) il domicilio nel territorio dello Stato ai sensi del codice civile.
L’art. 2, comma 2 bis, del TUIR (aggiunto dalla Legge 23 dicembre 1998, n. 448, l’art. 10), dispone che “si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze…”.
Tale norma in buona sostanza prevede, al fine di essere esclusi dal novero dei soggetti residenti in Italia, un onere che impone al cittadino italiano di provare di risiedere effettivamente in quei Paesi considerati a fiscalità privilegiata.
In altri termini: avere la sede principale dell’attività, oltre che il centro degli interessi vitali deve essere individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi (Cass. 18 novembre 2011 n. 24246; Cass. 15 giugno 2010 n. 14434).
In questo senso, pertanto, le relazioni affettive familiari – la cui centrale importanza è invocata dall’ Agenzia delle Entrare, al fine di presumere la residenza fiscale del cittadino italiano residente all’estero, non hanno rilevanza probatoria.
Questi criteri possono avere rilievo solo unitamente se accompagnati ad altri criteri probatori i quali dimostrino, oltre ogni ragionevole dubbio, che il soggetto ha uno stretto collegamento con l’Italia. (Cass. n. 24246/2011 cit.; Cass. 7 novembre 2001 n. 13803).
Per quanto riguarda i Paesi Black list
l’art. 2, comma 2 bis D.P.R. n. 917/1986 rafforza notevolmente i poteri ispettivi e di vigilanza dell’Amministrazione finanziaria: «si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati nelle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori avente un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministero delle finanze da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale».
Pertanto non basta avere in Italia legami affettivi importanti, ma è necessario provare la sussistenza di effettivi e reali interessi che provino che la residenza all’estero è meramente fittizia.