la confisca nei reati tributariconfisca e sequestro

a cura dell’avv. Mario Paolo D’Arezzo                                                   Quaderni giuridici

Una delle maggiori questioni che riguardano la confisca per equivalente, è proprio la portata applicativa e la dimensione giuridica del provvedimento ablatorio applicato in caso di pluralità di concorrenti del reato alle operazioni di inesistenza fiscale.

Le operazioni inesistenti ex art. 21 comma 7 DPR n. 633 del 1972 vengono effettuate attraverso l’emissione di fatture a fronte di una inesistente prestazione, indicando i corrispettivi in misura superiore rispetto a quella reale.

Sotto il profilo sanzionatorio l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, oltre a comportare la debenza delle sanzioni amministrative ricollegate al mancato assolvimento dell’iva sulle operazioni attive e all’indebita detrazione rispettivamente per l’emittente per l’utilizzatore, perfezionano i reati previsti e puniti ex 2 (utilizzo) ex art.8 (emissione) del d lgs n.74 del 2000.

L’art.1 lettera a) del decreto legislativo n.74 del 2000 definisce tali ipotesi delittuose come: ogni operazione inerente all’emissione di fatture o gli altri documenti contabili aventi rilievo probatorio, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto e in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero si riferiscono a operazioni effettuate a soggetti diversi da quelli effettivi.

Nel rappresentare tale fattispecie criminosa, il legislatore fa emergere una tripartizione tra inesistenza oggettiva, inesistenza soggettiva e sovrafatturazione o inesistenza parziale, che struttura il reato secondo la tipologia del dolo accertato, il quale deve emergere da elementi fattuali e dimostrativi che l’autore materiale della condotta abbia consapevolmente e volontariamente preordinato l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti anche per consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. (Cassazione penale n.42497 del 18/10/2023).

Allo stesso tempo da un punto di vista squisitamente tributario, la fattura oggetto di contestazione deve essere registrata, secondo il  principio di documentazione che ispira il sistema dell’iva previsto dall’art. 6 del DPR n. 633/72, il quale si impernia sull’emissione e sulla registrazione del documento contabile, in quanto l’imposta relativa alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi diviene esigibile nel momento in cui le operazioni si considerano effettuate secondo le disposizioni della legge sull’iva.

Tali questioni diventano estremamente rilevanti nell’ambito dei procedimenti cautelari, soprattutto per gli effetti che questi reati comportano preliminarmente all’interno del sequestro e poi in sede di confisca delle somme o del patrimonio del reo o dell’azienda.

Una delle questioni non ancora affrontate e non risolte dalla Suprema Corte è in ordine alla determinazione giuridica della confisca e ciò con riferimento alla portata applicativa nell’ambito dei reati plurisoggettivi.

La questione è stata oggetto di attenta valutazione da parte della sesta sezione penale della Corte di cassazione (ordinanza n. 22935 del 6.6.2024 della sez. VI) che ha rimesso alle Sezioni Unite questa problematica attualmente irrisolta dalla Giurisprudenza.  

L’utilizzo tout court del provvedimento ablatorio in ambito fiscale è una preventiva applicazione  sanzionatoria, posto a baluardo del fenomeno dell’evasione fiscale che si è recentemente arricchita della previsione espressa dall’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 secondo cui, nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale.

Questa disposizione ha reso possibile l’applicazione della “confisca per equivalente” disciplinata dall’art. 322-ter del c.p., già proficuamente testata in altri settori nevralgici del diritto penale dell’economia ed in particolare nell’ambito dei reati tributari, previdenziali.

Si tratta senza dubbio di una norma che si inserisce nella strategia di neutralizzare i proventi del reato con l’autore del reato, ma allo stesso tempo, è una misura potenzialmente pregiudizievole per l’azienda che subisce il sequestro, perché spesso si riduce ad una mera anticipazione del provvedimento finale quando non rigorosamente agganciata ad effettive esigenze cautelari, con l’effetto di bloccare ogni operazione commerciale che l’azienda ha attuato.

Nel diritto tributario penale sussistono certamente ipotesi di concorso di reato in cui più persone secondo un medesimo disegno criminoso concorrono al reato di emissioni di fatture inesistenti per dividere illegittimamente gli utili, oppure per ripartire il contante, che l’operazione genererebbe ai concorrenti del reato.

Purtuttavia, non si può condividere quanto assunto dalla Suprema Cassazione secondo cui il sequestro per equivalente rappresenta a ragione o a torto quel carattere afflittivo e sanzionatorio della misura cautelare che poi vedrebbe nell’applicazione in ciascuno dei concorrenti, attraverso lo strumento della confisca obbligatoria ex art. 322-ter c.p., l’intera entità del prezzo o profitto accertato, salvo ovviamente l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti, che quale dovrà essere oggetto di prova.

Questo principio se estremizzato, può condurre a conseguenze abnormi proprio dal punto di vista del principio di causalità.

Non può essere considerato legittima l’esecuzione di confisca di beni, già posti in sequestro, per un valore equivalente all’intero importo dell’utile di operazioni inesistenti in capo ad uno solo degli indagati concorrenti, senza valutare minimamente l’apporto causale del singolo autore del reato.

Credo che in una simile ipotesi, non si possa applicare il principio solidaristico della disciplina del concorso di persone nel reato, il quale ritiene che ciascun concorrente possa essere chiamato a rispondere dell’intera entità del profitto accertato, sul presupposto della corresponsabilità di tutti, in quanto in questa tipologia di reati tributari, deve essere sempre accertato il relativo riparto causale del lucrum illicitum, oltre che del ruolo che ciascuno concorrente ha avuto nel perfezionare la condotta delittuosa.

La scelta dalla Suprema Corte non è ulteriormente condivisibile, in quanto l’apprensione del patrimonio deve essere riferita in capo al patrimonio del soggetto che viene attinto dalla misura ablativa, così come previsto dal comma 1 dell’art. 322-ter c.p., il quale subordina la confisca del bene sul presupposto che il singolo responsabile abbia la disponibilità della cosa e che il bene non appartenga ad una terza persona.

La sanzione patrimoniale non può interessare il patrimonio del responsabile in misura superiore rispetto a quanto ottenuto a mezzo della condotta delittuosa e ciò anche nel caso in cui il reo abbia avuto una partecipazione causale minima al fatto.

Se così fosse, si correrebbe il rischio di aggredire indiscriminatamente i beni di qualunque correo, sul mero presupposto “della più semplice accessibilità del suo patrimonio rispetto a quello degli altri compartecipi”.

Merita, dunque, piena adesione al recente orientamento giurisprudenziale (Cass. Pen., sez. VI, 9 luglio 2007, in Mass. Uff., 237290; Cass. Pen., sez. VI, 14 giugno2007, in Mass. Uff., 240572; Cass., Sez. VI, 23 giugno 2006, in Mass. Uff., 234850), che ha riconosciuto, in caso di concorso di persone nel reato, la necessità di un rapporto di proporzione tra l’arricchimento derivante al singolo compartecipe dalla commissione dell’illecito e la somma da sottoporre a confisca per equivalente, stabilendo il principio, assolutamente condivisibile, in base al quale la confisca per equivalente non può eccedere per ciascun concorrente la quota di profitto a lui attribuibile.

Secondo questa decisione, in caso di reato commesso da una pluralità di soggetti, si può disporre la confisca per equivalente di beni per un importo che non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura della quota di prezzo o profitto a lui attribuibile.

L’effetto di questa decisione è che il giudice di merito dovrà, all’esito del giudizio e dell’accertamento delle responsabilità, stabilire la quota di prezzo o di profitto effettivamente attribuibile al singolo concorrente, e qualora ciò non fosse possibile dovrà rispettare i canoni della solidarietà interna fra i concorrenti (e cioè senza moltiplicare l’importo per il numero dei concorrenti).

Ora se questo orientamento sembrava coerente con il quadro dei principi espressi dagli artt. 3 e 27 Cost., i quali impongono che la responsabilità penale sia personale e che la pena sia proporzionata alla gravità del fatto commesso, oggi a mio avviso non è più sufficiente in quanto è sempre necessario accertare nello specifico la responsabilità dell’autore secondo il concreto apporto causale che il singolo reo ha avuto.

L’applicazione tout cout del principio solidaristico preso in prestito dal concorso di persone, non risolve il problema e ciò anche con riferimento alla violazione del principio di legalità in termini di giustizia, lì dove uno dei compartecipi abbia avuto un ruolo assolutamente marginale al fatto.

La questione diventa ulteriormente complessa in tutti quei casi in cui non sia possibile un accertamento causale del fatto e ciò sia in ordine alla determinazione del ruolo dei concorrenti medesimi nella commissione del reato, e sia nell’applicazione dei criteri posti dagli artt. 1298. 2055 cc riferito proprio alla responsabilità da fatto illecito, secondo cui il giudice penale è tenuto ad accertare la ripartizione pro quota della responsabilità e della partecipazione al profitto, optando poi in ultima analisi alla suddivisione in parti uguali della responsabilità, lì dove non sia riuscito ad accertarla. Cass. pen. sez. VI, 20 gennaio 2021, n. 4727 in dejure.

Utilizzando questo criterio, si salvaguarderebbe il principio di legalità e di responsabilità penale personale evitando effetti distorsivi dei provvedimenti ablativi, che talvolta possono ingenerarsi a partire dalla “unicità” del fatto tipico realizzato dalle persone concorrenti nella realizzazione dell’illecito plurisoggettivo.

Ritengo in ogni caso che debba essere sempre salvaguardato il principio di legalità e di responsabilità penale personale identificando il ruolo, la responsabilità ed il profitto che ciascun compartecipe ha avuto.

Questa soluzione potrebbe rappresentare la soluzione corretta per stabilire il ruolo di promotore o organizzatore dell’illecito plurisoggettivo, ovvero il ruolo di direzione dei compiti di cooperazione tra tutti gli intervenienti o ancora, a seconda dei casi, potrebbe essere un sistema per stabilire chi ha diretto la commissione del reato e chi lo ha eseguito.

Alla luce di queste considerazioni, si indirizzerebbe lo strumento ablatorio esclusivamente verso i soggetti apicali, e lì dove non fosse possibile stabilire il grado di coinvolgimento effettivo di ciascuno dei correi, si potrebbe seguire il criterio dell’illecito civilistico secondo i criteri posti dall’art. 2055 c.c., tanto che tale ipotesi potrebbe rappresentare una fattiva applicazione del principio solidaristico nell’ambito dei reati plurisoggettivi fiscali.

Questa soluzione condurrebbe ad effetti equitativi per tutti i correi ed eviterebbe effetti abnormi nell’ambito dei sequestri per equivalente prima e poi in sede di confisca, ma soprattutto permetterebbe all’azienda di continuare a svolgere la propria attività d’impresa secondo una propria continuità.