il Trust fittizio non protegge il patrimonio

a cura dell’avv. Mario Paolo D’Arezzo

Molte persone pensano che attraverso l’istituzione di un Trust si possa evitare il pagamento delle imposte o dei creditori, ma non è così.

E’ ovvio che se l’intento del disponente è quello di agire in frode ai creditori, questi potranno proporre un’azione revocatoria sulla base dei due presupposti: consilium fraudis ed eventus damni.

Si segnala agli utenti un’interessante sentenza della Corte di Cassazione  che ha confermato il sequestro sui beni in trust  ex316 cpp, sul presupposto che il disponente ne avesse la materiale disponibilità “uti dominus,” indipendentemente dalla titolarità del diritto in capo a terzi (Cassazione, sentenze 41670/2014 e 21621/2014),

Secondo la Suprema Corte, infatti,  è irrilevante la pertinenza dei beni ai reati contestati, dato l’esclusivo fine di garanzia patrimoniale costituente uno dei presupposti della misura cautelare (Cassazione, sentenza 805/2013), e sia, perché il comportamento sleale del trustee ha dato fondamento a un giustificato giudizio prognostico negativo in ordine alla conservazione delle garanzie patrimoniali del debitore nei confronti dello Stato.

Questa decisione è in linea con l’attuale orientamento giurisprudenziale del 2011 vd sentenza n. 13276,  quindi non stupisce che i giudici di legittimità abbiano deciso secondo queste modalità, anche perché il Trust non può avere finalità elusive, ossia rivolto ad evitare il pagamento delle imposte o peggio ancora evitare di pagare i creditori. Vale la pena ricordare come già nel 2011 la Suprema Corte avesse statuito come “il trust, tipico istituto di diritto inglese, si sostanzi nell’affidamento ad un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale ‘proprietario’ (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente.

Presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio”.

Il consiglio che si può dare agli utenti è di rivolgersi sempre a degli specialisti e non a professionisti generalisti.

Per la Cassazione non esiste la servitù di Parcheggio

Vogliamo segnalare la sentenza n. 23708 del 06 novembre 2014 della Suprema Corte di Cassazione con la quale ha sancito la non configurabilità di una servitù di parcheggio.

In questa controversia l’attrice in qualità erede evocava in giudizio la società alla quale il padre aveva, a suo tempo, venduto un piccolo appezzamento di terreno chiedendo al Tribunale che venisse accertato la servitù di parcheggio.

I giudici di merito accertavano l’esistenza della servitù secondo quanto statuito da un contratto reso tra il de cuius del suolo e la società in questione, ossia “che il terreno, compravenduto fosse gravato da servitù di parcheggio limitatamente a due auto” in favore del padre dell’attrice.

Veniva proposto dal convenuto ricorso per Cassazione, con il quale la società non riteneva configurabile il diritto ad una servitù di parcheggio, in quanto secondo la giurisprudenza di legittimità per tutte (Cass. sent. 7 marzo 2013, n. 5760) non poteva configurarsi una servitù in quanto “ il parcheggio di autovetture costituisce manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, del quale difetta la realitas, intesa come inerenza al fondo dominante dell’utilità, così come al fondo servente del peso), mentre la mera commoditas di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari (Cass. sent. 28 aprile 2004 n. 8137)” .

Con questa decisione la Suprema Corte riprendendo il suo consolidato orientamento, ha sancito la non riconoscibilità della servitù di parcheggio con la conseguenza che gli atti che determinano o disciplinano servitù di parcheggio devono essere considerati nulli per impossibilità dell’oggetto dell’atto di riconoscimento o di costituzione di servitù”.

Il reato di autoriclaggio – il termine di prescrizione

I reati tributari possono costituire anche la fonte per la commissione del reato di autoriciclaggio, così come emerge dall’ultima versione del disegno di legge. Secondo l’ipotesi posta allo studio dalla Commissione giustizia, l’autoriciclaggio (a differenza del riciclaggio e dell’impiego di denaro, beni e altre utilità di provenienza illecita) si realizza normalmente per la sola circostanza di non averne materialmente dichiarato la provenienza, e ciò anche se le somme siano state utilizzate personalmente per l’acquisto di beni personali.
Tale fattispecie criminosa riguarda chiunque abbia commesso o concorso a commettere il reato principale provvedendo successivamente con riferimento al denaro, beni o altre utilità provenienti dalla commissione proprio di tale delitto, all’impiego, alla sostituzione, al trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, ulteriormente è necessario però che sia concretamente ostacolata l’identificazione della provenienza delittuosa di queste somme. In sostanza, il reato richiede che sia ostacolata l’identificazione di beni o denaro di provenienza illecita.
Appare evidente che in presenza di reati tributari la possibilità (anche involontaria) di commettere questo nuovo reato diventa particolarmente elevata a tal punto che, in molte ipotesi, con la semplice condotta illecita integrante il reato tributario, di fatto, si potrebbe consumare anche l’autoriciclaggio per il semplice contribuente.
La Commissione giustizia con questo disegno di legge mira a colpire tutti i proventi derivanti da evasione fiscale che vengono normalmente trasferiti o impiegati in attività economica, finanziaria, imprenditoriale o speculativa. Anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 43881 del 2014 sezione III penale, ha sancito che integra il reato di riciclaggio, sia qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivi a precedenti versamenti, sia il mero trasferimento di denaro di provenienza illecita da un conto corrente bancario o un altro diversamente intestato e acceso presso un differente istituto di credito.
Questo trend giurisprudenziale intrapreso dal 2011 con la sentenza n. 546 del 11 gennaio 2011 1°sezione penale, secondo la quale il reato di riciclaggio è integrato anche nel caso in cui venga depositato in banca denaro di provenienza illecita, atteso che, stante la natura fungibile del bene, per il solo fatto dell’avvenuto deposito, il denaro viene automaticamente sostituito: in sostanza secondo la Corte di Cassazione, non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni, essendo sufficiente che essa sia anche solo ostacolata con al conseguenza che si rinviene il reato di riciclaggio anche nella condotta di mero trasferimento del denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente a un altro di un diverso istituto bancario.
Va da sé che, il contribuente il quale non dichiari somme incassate per importi tali da integrare la dichiarazione infedele o la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, certamente dovrà trasferire le somme e quindi il rischio di commettere anche il reato di autoriciclaggio.
Per evitare il nuovo reato dovrebbe, secondo il disposto del nuovo articolo 648 ter 1 codice penale, custodire e impiegare i proventi in modo del tutto trasparente: mal si comprende, come, in concreto, possa realizzarsi tale circostanza, atteso che già il loro versamento su un conto, secondo la Suprema Corte, rappresenta un ostacolo all’identificazione.
Secondo la Suprema Corte perché ci si possa “macchiare” del reato di riciclaggio conta qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti operazioni. Così come dà luogo a riciclaggio il semplice trasferimento di denaro di provenienza illecita da un conto corrente a un altro, anche se intestato a una diversa persona e aperto preso un’altra banca «a prescindere dal rilievo che tali movimentazioni siano eseguite avvalendosi della firma di altri contitolari del relativo potere su un dato conto corrente.
Determinante, sottolinea la sentenza, è il carattere di fungibilità del denaro che porta ad una immediata perdita di identità delle somme versate sul medesimo conto corrente. Per questo, ricorda la Cassazione, per calcolare i termini di prescrizione di atti di riciclaggio consistenti in operazioni in uscita ad esempio da un conto corrente svizzero non bisogna considerare, come invece avevano fatto i giudici di merito, al giorno del versamento della provvista iniziale, «proprio perché essa, grazie alla fungibilità del denaro, non è più distinguibile una volta avutosene il versamento su un conto corrente alimentato da una pluralità di versamenti». Ulteriormente veniva anche respinta l’obiezione per cui il giorno da cui iniziare a fare decorrere la prescrizione, in caso di incertezza, deve essere quello più favorevole all’imputato.
Una previsione che vale solo in caso di approssimativa collocazione cronologica del momento in cui è commesso il reato, mentre, in questo caso, di delitto continuato, il reato va collocato in coincidenza con ogni singolo atto di prelievo e trasferimento individuabile con certezza attraverso documentazione.

Prima Casa – cantine escluse dalla superficie utile – Nuovo ricalcolo della superficie utile

La Suprema Corte con l’ordinanza n. 2307/14 , ha sancito per le prime case che le cantine vengano escluse dal conteggio della superficie utile.

La Corte di Cassazione in questo provvedimento ha sancito che non costituisce superfice utile complessiva di un immobile, le superfici delle cantine e delle soffitte (sottotetto), nonché la superficie esterna di pertinenza del condominio.

Va ricordato che dal 1 gennaio 2014, ai fini dell’imposta di registro, per usufruire dei benefici non si fa più riferimento al Dm del 2 agosto 1969, ma alla categoria catastale dell’immobile (che deve essere diversa da A/1, A/8 e A/9).

Mentre se la vendita è soggetta a IVA valgono ancora i vecchi criteri così come previsto dalla Sentenza n. 23507/2014.

Alcune piccole modifiche sul RAVVEDIMENTO OPEROSO da parte della proposta della legge di stabilità

Il ravvedimento operoso è lo strumento attraverso il quale il contribuente può rimediare ad eventuali omissioni o irregolarità che ha commesso, per mettersi in regola. In tal modo può beneficiare di sconti sulle sanzioni amministrative, ma solo se lo fa entro determinati limiti di tempo. Con il ravvedimento operoso, il contribuente può porre rimedio agli errori che ha commesso e mettersi in regola con eventuali omissioni o irregolarità beneficiando di sconti sulle sanzioni amministrative: ma solo se provvede a correggere quanto ha sbagliato entro determinati limiti di tempo. In caso di omesso o insufficiente versamento delle imposte, se si paga quanto dovuto:
entro 30 giorni dalla scadenza, la sanzione scende dal 30 per cento al 3 per cento;
dopo i 30 giorni, ma entro un anno da quando si è commesso l’errore, essa scende al 3,75 per cento.
Per quanto riguarda errori o omissioni di natura sostanziale è necessario ricordarsi che questi possono essere regolarizzati mediante il pagamento di una sanzione ridotta al 3,75 per cento di quanto dovuto.
• Qualora invece si tratti di errori materiali e di calcolo nella determinazione degli imponibili e delle imposte come ad esempio l’indicazione, in misura superiore a quella che spetta effettivamente, di detrazioni di imposta, oneri deducibili o detraibili, ritenute d’acconto e crediti d’imposta.
La sanzione è invece del 12,50 per cento in caso di errori ed omissioni identificabili come “infedeli dichiarazioni”, quali:
• errata determinazione di redditi;
• esposizione di indebite detrazioni o deduzioni.
Qualora invece
la dichiarazione dei redditi viene presentata in ritardo, ma non oltre i 90 giorni dalla data di scadenza, e non comprende errori di diverso tipo, il ravvedimento è previsto con il solo pagamento di una sanzione pari a 25 euro.
Infine, non è possibile usufruire del ravvedimento quando:
• l’errore è stato già individuato dall’amministrazione;
• sono già avviate ispezioni e verifiche;
• sono iniziate altre attività amministrative di accertamento comunicate formalmente.
Questa è l’attuale prassi, oggi con la proposta della nuova legge di stabilità, il Consiglio dei Ministri, a proposito del contrasto all’evasione fiscale ha previsto all’art. 44 della legge di stabilità la modifica all’attuale formulazione dell’istituto del ravvedimento operoso, di cui all’art. 13 del D.lgs. n. 472/1997.

In particolare, sono stati ampliati i termini per poter procedere al ravvedimento, indipendentemente dal verificarsi di accertamenti.
Infatti è possibile espletare il ravvedimento:
– Dal 15esimo giorno al 30esimo giorno dalla scadenza 1/10 della sanzione;
– Dal 31esimo giorno al 30 settembre dell’anno successivo a quello in cui è stato omesso o ritardato il tributo 1/8 della sanzione;
– Entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato omesso o ritardato il tributo 1/9 della sanzione (novità introdotta dalla DDL stabilità);
– Entro il 30 settembre del secondo anno successivo a quello in cui è stato commesso l’inadempimento 1/7 della sanzione (novità introdotta dal DDL stabilità);
Niente di clamoroso ma è un segnale che qualcosa si sta momento in direzione del contribuente, aspettiamo il testo definitivo

Le indagini difensive in materia penale negli accertamenti tributari

a cura dell’avv. Mario Paolo D’Arezzo

Questo è un piccolo vademecum che speriamo possa essere utile a coloro i quali hanno ricevuto avvisi di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate relativi al proprio reddito o al mancato versamento di imposte indirette.
Preliminarmente, la difesa del contribuente nel procedimento penale per reati tributari presenta una metodologia difensiva diversa rispetto agli altri reati, in quanto è improntata all’accertamento dei fatti oggetto dell’indagine tributaria, e quindi di un difesa attiva da parte dell’avvocato.
Il procedimento penale tributario è caratterizzato, infatti, dall’esecuzione da parte dell’agenzia o della guardia di finanza di accertamenti spesso induttivi basati su documenti contabili o extracontabili, per i quali è necessario fin da subito predisporre una difesa adeguata.
In questa fase è necessario che il contribuente collabori con l’avvocato difensore fin da subito per la predisposizione di giuste indagini difensive penali e tributarie con la scopo di ricostruire quanto accertato dall’Agenzia o dalla guardia di finanza.
E’ infatti necessario ricordare che proprio per la particolarità del procedimento penale-tributario l’avvocato difensore può difendere fin da subito il contribuente senza dover attendere la conclusioni delle indagini da parte del PM, raccogliendo prove documentali, e strutturare una difesa proficua contro le presunzioni tributarie, spesso utilizzate dall’agenzia anche in sede penale per l’accertamento della maggiore imposta.
Il contribuente, qualora, si trovi ad essere indagato per reati fiscali potrà utilizzarli nell’udienza preliminare, e ciò al solo fine di contrastare l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio, o per difendersi nel rito abbreviato e patteggiamento.
Qualora, invece, il contribuente si trovi ad essere rinviato a giudizio, le prove raccolte potranno essere utilizzate nel processo penale, sia dal difensore che dal PM per le contestazioni ai testimoni in udienza.
In ogni caso, è necessario tenere presente come oramai sia assolutamente costante da parte della Suprema Corte di Cassazione, il ricorso alle presunzioni tributarie anche per determinazione dei reati tributari.
Ai fini della predisposizione della giusta difesa è necessario tenere nella dovuta considerazione come il giudice, nella formazione del suo convincimento, sia certamente tenuto all’osservanza dei canoni giuridici che in linea generale governano l’acquisizione, la verifica e la valutazione dei dati probatori, ma qualora manchino specifici elementi oggettivi, come documenti, deposizioni testimoniali, non potrà ignorare la cosiddetta prova logica e neppure le presunzioni secondo la normativa tributaria, avvalendosi, di dati processualmente acquisiti.
L’effetto di tale assunto è quello che molto spesso i nostri giudici fanno ricorso alla “presunzione” intesa come quella particolare disciplina probatoria che consente, per la ricostruzione di un maggior reddito, di ritenere esistenti determinati fatti in via induttiva – quale accertamento cosiddetto induttivo espressamente facoltizzato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 e ciò in presenza di specifiche violazioni tributarie.
Da ultimo è necessario ricordare che, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonchè ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Corte di Cass. Penale sez. 3, n. 5786 del 18.12.2007 dep. 6.2.2008, D’Amico, rv. 238825).
E’ ancora più recentemente è stato ribadito che ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari (sez. 3, n. 24811 del 28.4.2011, Rocco, rv. 250647; conf. sez. 3 n. 28053 del 9.2.2011, Cartera, non mass.), ivi compreso quello operato mediante gli studi di settore (sez. 3, n. 40992 del 14.5.2013, Ottaiano, rv. 257619).
Non solo, ma oramai risulta anche costante la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione secondo la quale in tema di reati tributari, il giudice può legittimamente basarsi, per accertare la penale responsabilità dell’indagato per le omesse annotazioni obbligatorie ai fini delle imposte dirette e dell’I.V.A., sull’informativa della Guardia di Finanza, che abbia fatto ricorso ad una verifica delle percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati di mercato e ricorrere anche all’accertamento induttivo dell’imponibile quando la contabilità imposta dalla legge (come nei casi di specie) sia stata tenuta irregolarmente (sez. 3, n. 729 dei 15.12.1995 dep. 23.1.1996, Holbling, rv. 203691).
L’ovvia conclusione di questo breve panorama giurisprudenziale è la predisposizione fin dai primi atti di notifica di pvc o di accertamento al contribuente o all’indagato di un’adeguata difesa fiscale-penale al fine di consentire fin da subito il contrasto della pretesa erariale, ed il venir meno di possibili reati a suo carico.

Addio evasione fiscale!!

A Berlino è stato siglato l’accordo multilaterale per lo scambio automatico di informazioni finanziarie contro l’evasione fiscale internazionale a partire dal 2017. Un accordo che riguarda 51 paesi e che si estenderà a 92 nel 2018.
Con un comunicato tra l’altro anticipato sul Sole 24 la scorsa settimana, il Ministero dell’Economia e Finanze, in occasione del Global Forum per la trasparenza e lo scambio di informazioni dell’OCSE (composto da 123 giurisdizioni più diversi organismi internazionali) che si è tenutosi a Berlino, 51 Paesi hanno sottoscritto l’accordo per l’implementazione del nuovo standard unico globale per lo scambio automatico di informazioni (Common Reporting Standard, elaborato dall’OCSE) a partire dal 2017. Altri 7 Paesi si sono impegnati a scambiare le informazioni a partire dalla stessa data, ancorché oggi non abbiano firmato l’accordo. A partire dal 2018 agli ‘early adopters’ si aggiungeranno ulteriori 34 Paesi.
Si tratta del punto di arrivo di un intenso e prolungato sforzo internazionale orientato a conseguire un accordo politico e tecnico tale da cancellare il segreto bancario. Risultato che può oggi dirsi raggiunto e implementato a partire dal 2017. In concreto, le attività di verifica sui conti saranno avviate dagli intermediari finanziari dei paesi early adopters già dal primo gennaio 2016.
L’Italia è sempre stata in prima linea nelle attività di contrasto all’evasione fiscale e ha sostenuto l’adozione di uno standard internazionale sin dai primi tentativi, partecipando al Gruppo dei 5 (G5: Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito) che ha elaborato, insieme agli Stati Uniti, l’accordo per l’applicazione del FATCA e il miglioramento della compliance fiscale internazionale.
Infine, il MEF precisa che in qualità di presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea, l’Italia ha finalizzato il testo della nuova Direttiva sulla Cooperazione Amministrativa, ottenendo l’accordo politico in occasione della riunione Ecofin del 14 ottobre. La nuova Direttiva impegna gli stati membri dell’Unione europea ad adottare il Common Reporting Standard a partire dal 2017 (con l’eccezione dell’Austria che adotterà lo standard dal 2018).